La parola accettazione, è una parola carica di significati, che spesso però, sono forieri di diatribe e fraintendimenti, in quanto si tende ad associare al termine, un riduttivo “buonismo” o anche una remissività, considerata sana da una semplificata visione religiosa. A mio avviso, c’è una grande differenza tra accettazione ed arrendevolezza. L’accezione con cui il concetto di accettazione viene utilizzato nei percorsi di mindfulness, parte innanzitutto da una valutazione realistica degli eventi: una mente accettante guarda le cose così come sono e non le cose per come vorrebbe che fossero.
Alcune tradizioni orientali, ma anche la moderna psicologia, tendono a considerare l’accettazione come parente stretta del cambiamento proprio perché se non facciamo pace con questo primo assunto e cioè con “ le cose stanno così” non saremo mai in grado di procedere verso una modifica ( lì dove è possibile effettuarla) o verso una necessaria convivenza, se non è attuabile un cambiamento. L’accettazione non è e non può essere proposto come un punto di partenza, bensì come un approdo; è la fase finale di un processo che porta come regalo l’affrancamento dal loop ricorsivo della mente e di conseguenza porta alla libertà dal condizionamento.
La tendenza naturale di ognuno di noi, di fronte allo spiacevole, è di sviluppare una reattività immediata in termini di rifiuto, giudizio o critica di quell’evento/persona/situazione che generano disagio dentro di noi.
Questo però, di solito, non solo non modifica gli eventi, ma spesso aggiunge sofferenza alla sofferenza.
Quello che vorrei spiegare è, che è naturale che qualcosa ci piaccia e qualcos’altro no, ma questo aspetto naturale ed imprescindibile della natura umana, non va confuso con la tendenza al rimuginio sterile o alla critica senza risultato, che spesso inquinano la nostra mente e ci privano di lucidità.
Quindi non significa che, se una situazione non va o una persona ci fa soffrire, dobbiamo passivamente sottostare.
L’invito è invece proprio quello di liberare la mente da una proliferazione compulsiva, per lasciare spazio ad una osservazione il più possibile scevra da reattività, al fine di agire di conseguenza. La mindfulness, che nella sua accezione più riconosciuta, riguarda proprio la capacità di sviluppare consapevolezza (verso i nostri moti interni e verso il mondo che ci circonda) aiuta a fare tutto questo.
L’amore per se stessi, è qualcosa che viene spesso consigliato come “soluzione” pensando che si possa semplicisticamente sostituire a quegli aspetti nevrotici che spesso coabitano in noi. Molti lo indicano come la via, senza però spiegare come imboccarla nè percorrerla. Io credo che l’amore verso se stessi, per la maggior parte di noi, sia il risultato del lavoro interiore di una vita, che passa attraverso l’ascolto di quello che emerge, la connessione del proprio sentire, la destrutturazione di un ego (che spesso è solo una difesa), l’accettazione profonda e la compassione verso noi stessi e gli altri. Tutte queste qualità attitudinali possono essere coltivate attraverso la mindfulness.
Dott.ssa Loredana Vistarini